La punta dell’iceberg
“E’ solo la punta dell’iceberg”
“Bisogna scavare in profondità”
“Cerchiamo le ragioni profonde”
Quello che accomuna questi modi di dire è che SICURAMENTE c’è qualcosa sotto.
Per senso comune siamo portati a considerare quello che vediamo come la rappresentazione esterna di qualcosa di più nascosto.
E questa convinzione va a braccetto con l’abitudine a dividere ciò che è superficiale da ciò che è profondo, spesso associando a quest’ultima categoria il senso ultimo delle cose. Come se la verità stesse “sotto” e il nostro sguardo ne vedesse solo una parte o una rappresentazione fumosa.
Quando guardiamo ciò che accade e pensiamo “chissà cosa c’è sotto?”, mettiamo in atto uno specifico processo di conoscenza:
- c’è una realtà vera a cui io non ho accesso immediato, ma posso vederne gli effetti;
- a partire dagli effetti posso risalire alle cause tramite le teorie che le spiegano;
- dalle cause superficiali posso individuare le ragioni profonde.
Per cosa ci è utile?
Abbiamo l’illusione che conoscendo le cause possiamo rimettere le cose in ordine.
Ma è proprio così? Cioè, funziona?
Nella vita quotidiana, pensiamo di aver scoperto le cause di un comportamento indesiderato, ma agendo su quelle cause non eliminiamo il comportamento e a posteriori diciamo “Non capisco, io ho fatto di tutto, ma lui/lei non ne vuole proprio sapere”.
Nelle situazioni lavorative, mi vengono in mente i racconti di Team Leader che cercano in tutti i modi di “tirare fuori il meglio” dai collaboratori ma “non c’è verso”. Oppure di “cattive relazioni” d’ufficio in cui ci si chiede come mai gli altri si comportino in certi modi.
Quando siamo orientati a capire cosa c’è sotto (o dietro, come preferite) stiamo implicitamente dicendo che la persona che abbiamo davanti non è padrona di se stessa (o, nella peggiore delle ipotesi, che sta mentendo oppure che ha doppi fini a noi sconosciuti), che è vittima di cause di forza maggiore che devono essere scoperte.
L’impatto? C’é una grande probabilità che l’altra persona si senta poco compresa e non ascoltata perché avverte che il nostro interesse è riportare l’ordine (che fa stare bene noi) e non capire cosa sta accadendo (che stiamo vivendo insieme).
Un’alternativa utile è una visione pragmatica della conoscenza: smettere di chiederci se quello che dice l’altro è vero e perché lo sta dicendo; chiediamoci, piuttosto, quale impatto sta avendo raccontare quella situazione proprio in quel modo.
Il nostro ‘stare bene’ si forma nelle interazioni; quindi, è nella relazione con l’altro che dobbiamo cercare il significato di quello che accade. Non con l’obiettivo dell’investigatore che cerca indizi per scoprire la verità, ma con l’inclinazione del ricercatore che mette sul piatto quello che ha osservato e discute con gli altri il senso da dare a quelle informazioni.
Fuori di metafora: se c’è un comportamento dei nostri collaboratori o del capo che pensiamo stia allontanando dagli obiettivi condivisi o un modo di comportarsi che non capiamo, anziché SCAVARE per cercarne le ragioni, cerchiamo di COSTRUIRE uno spazio condiviso in cui fare un altro pezzo di strada nella direzione desiderata.
Qualche esempio di frase che “scava”:
Non capisco perché ti comporti così. Blocchi il lavoro per tutti gli altri.
Chissà cosa stanno tramando ai piani alti!
Non so da dove si origina questo atteggiamento, ma è controproducente.
Qualche esempio di frase che “costruisce”:
Ieri è successo …. e ho notato che ha avuto questo impatto sul lavoro. Che cosa possiamo fare per rendere il lavoro più fluido per tutti?
Mi sarebbe utile conoscere gli obiettivi aziendali a medio e lungo termine, per capire come posso lavorare in quella direzione.
Come procede il lavoro? C’è qualcosa che posso fare per aiutarti a migliorare questo aspetto? E tu cosa suggerisci per migliorare il lavoro di team?
In definitiva …
Cercare le cause dei comportamenti nostri e altrui ci offre un certo senso di conforto dato dall’illusione di poter controllare gli eventi.
Ma comporta incasellare la realtà in etichette che abbiamo creato, come fossero vere di per sé. E ci fa scontrare con le ragioni degli altri (che per gli altri sono altrettanto ‘vere’).
Anziché chiederci se è vero, possiamo chiederci se il modo in cui stiamo raccontando le cose è utile.
A chi? Come? Cioè, con che vantaggi? E con quali impatti sugli scenari futuri?
Con un po’ di allenamento, ne avremo un grande sollievo. Il sollievo che deriva da:
- capire che non ci sono cause all’esterno di noi e fuori portata, per cui possiamo sempre fare qualcosa per cambiare le cose. Non siamo condannati ad una situazione, qualunque essa sia;
- alleggerire il nostro animo imparando a “stare” in quello che accade: la leggerezza deriva dalla sensazione di poterci prendere il momento di osservare, senza sentirci in colpa perché stiamo perdendo tempo. “Lasciar andare” mentre osserviamo dove stiamo andando diventa un atto di ricerca, in cui passiamo da vedere le cose in emergenza (sbrighiamoci a … devo assolutamente capire se …) a percepirle mentre emergono (sta avvenendo che… cosa potrei fare per…).
Ricordiamoci sempre che l’iceberg non ha solo un SOTTO e un SOPRA, ma anche un DESTRA, SINISTRA, PRIMA, DOPO, FORSE, POTREBBE, TRA UN ATTIMO, MI STO SCIOGLIENDO, MI STO INGRANDENDO …